Intervista a Nino Tribulato

Autore del libro Memorie della casa terrana.

Il periodo natalizio per gli amanti della lettura è uno dei momenti più attesi dell’anno. Niente di più gradevole che leggere un buon libro accanto al fuoco del camino e sorseggiare intanto una cioccolata calda, un te, un vin brûlé accompagnati da qualche dolcetto o da una fetta di panettone. Ai classici libri che si è soliti leggere o rileggere in questa occasione si aggiungono le novità del momento. Tra queste il bellissimo libro Memorie della casa terrana pubblicato da Tra le righe Libri, vincitore del Premio Letterario il Borgo Italiano 2022, di Nino Tribulato, siciliano doc, come lo è questo suo primo romanzo che, tra innamoramenti, matrimoni, segregazioni, profezie dello sciamano, sentenze del mendicante filosofo, imprese commerciali ed eredità contestate, ci proiettain un tempo favoloso sullo sfondo della Sicilia del ‘600, e narra la saga delle famiglie Alessi, Guzzardi e Mazzara, e delle sorelle gemelle Enrichetta e Lucrezia

Abbiamo voluto saperne di più con questa intervista che ci ha gentilmente concesso:

1. Interessiamoci per cominciare dell’autore. Malgrado lei abbia dichiarato che personaggi e vicende del suo romanzo non hanno niente a che vedere, o solo in minima parte con il suo vissuto, traspare tuttavia tra le sue pagine un innegabile senso di appartenenza, vuole spiegarci fino a che punto questo sentimento ha influito nella sua scrittura?

I personaggi e le loro storie sono del tutto immaginarie, a parte alcuni riferimenti storici che non rivelo per rispetto dei lettori, ma, è vero, come in tutti i racconti in fondo c’è un vissuto che fa parte dell’intimo dell’autore: per me la percezione di essere il frutto di un mondo che non c’è più ma mi ritrovo dentro e che mi appartiene più di quanto non possa sembrare, dato il notevole lasso di tempo che è trascorso.

2. Ci piacerebbe sapere se ricorda il momento esatto in cui prese metaforicamente in mano la penna per scrivere le prime pagine del suo libro. Cosa la motivò? Cosa si proponeva? Qualcuno ha detto che lo ha fatto innanzitutto per soddisfare un suo piacere personale, tutto qui o c’è dell’altro? A mio avviso la dedica della prima pagina la dice lunga.

Sin da quando ero bambino mi hanno sempre affascinato i racconti di mio padre e mia nonna sulla nostra casa di famiglia, posta ai margini della collina del Piano della Fiera, che è stata più volte costruita e ricostruita dai nostri avi. Un giorno ho preso la penna in mano (nel senso che ho aperto il computer) e mi sono messo a scrivere di getto, lasciandomi trasportare dalla fantasia e dalle emozioni. E mi sono subito reso conto che non ero spinto solo dal piacere di raccontare, ma anche dal bisogno di fissare sulla carta vicende che altrimenti sarebbero svanite e si sarebbero sfilacciate a poco a poco nei racconti delle sere d’inverno attorno al fuoco o in quelle d’estate attorno alla tavola, per essere infine dimenticate. Ecco quindi l’intrecciarsi delle memorie con i sogni, ove per sogni intendo le storie di vite irreali, ma che in effetti potrebbero essersi svolte come le ho immaginate, e il cui ricordo rimarrà solo perché ne ho scritto.

3. La scrittura di solito diventa a poco a poco una forma di dipendenza, la subisce anche lei? Cosa prevede nel suo futuro di scrittore? Continuerà a narrare la saga dei Guzzardi o ci racconterà altro?

Sono sempre stato legato allo scrivere, anche se in passato, sin da ragazzo, ho scritto solo poesie. La dipendenza è quel qualcosa che ti fa scrivere dei versi sui bordi di un quotidiano in aereo, se in quel momento è stimolata la tua creatività. Ma la poesia è qualcosa di molto intimo e non ho mai divulgato le mie poesie, anche se molti anni addietro ho vinto un premio nazionale, ma non ho diffuso la notizia. Invece non mi ero mai cimentato nel raccontare e, quando ho cominciato, ho capito che era anche quello il mio mondo. Ormai non posso fare a meno di raccontare e non è rivelare un segreto dire che lo sto facendo anche ora. Non voglio però, almeno per il momento, svelare i contenuti, è tutto in fieri. Magari non sarà un romanzo visionario e fantastico come “Memorie della casa terrana”.  

4. Sollecitato da un relatore nel corso di una sua presentazione sul termine: “la sventurata”, da lei usato per definire Lucrezia in un delicato momento della sua vita, ha ammesso di essere stato un convinto lettore manzoniano, ci sono altre letture o altri autori che in qualche modo hanno influito sulla sua scrittura?

Anche se nell’episodio citato si parla di una monaca del tutto diversa dalla Gertrude manzoniana, è stata troppo forte la suggestione di richiamare quell’aggettivo, “sventurata” così calzante per Gertrude e che, nella prospettiva di chi l’ha pronunziato nel mio romanzo, aderisce anche al personaggio di Lucrezia.

Per rispondere alla sua domanda, se dicessi che nessuno mi ha influenzato direi una bugia. Non credo ci sia uno scrittore che non deve un tributo ai suoi studi, alle sue letture: soprattutto a quelle che sono coerenti con le sue inclinazioni. Di certo sono stato affascinato dai romanzieri sudamericani da Gabriel Garcia Marquez a Jorge Amado, ma anche dal portoghese Josè Saramago e, non sembri strano, dagli scrittori mitteleuropei, da Joseph Roth a Robert Musil, e sicuramente ne sto dimenticando tanti di quelli che mi hanno coinvolto.

5. Sempre a proposito di Lucrezia, io credo che il riferimento ai Promessi Sposi regga fino ad un certo punto. Gertrude è una monacata a forza, Lucrezia per libera scelta. Questo suo gesto così drastico si confà perfettamente alla personalità di un personaggio così complesso che si oppone a quello della sorella Enrichetta, vorrebbe parlarcene?

Ho già detto che Lucrezia non ha nulla a che vedere con la Gertrude del Manzoni. Il gesto di Lucrezia si inserisce a pieno titolo nel mio tentativo di raccontare una delle figure più importanti del romanzo: uno dei personaggi veramente a tutto tondo. Perché Lucrezia, a differenza della sorella gemella Enrichetta che è eterea e solare, è attaccata a terra, travolta sin dall’infanzia dall’idea di essere stata intimamente rifiutata, e vive in una perenne solitudine interiore dalla quale non riesce ad uscire nonostante tutti i tentativi e tutte le imprese. Cerca di nascondere le sue debolezze, ma le fa emergere dai comportamenti, ad esempio quando grida la sua rabbia e il suo risentimento contro una vita che sembra essere approntata più dal Diavolo che da Dio. Lucrezia vive nella dimensione dell’ombra e fa emergere in modo drammatico le sue zone oscure: a ben vedere è un personaggio che, secondo le attuali categorie, può definirsi maniaco-depressivo, preda dell’affanno e dell’amarezza senza senso che invadono quotidianamente la vita. Se ho detto che Enrichetta c’est moi, non è una contraddizione dire che anche Lucrezia c’est moi. In verità, pensandoci bene, con le due sorelle uguali come due gocce d’acqua ma così diverse intimamente, ho voluto narrare delle diverse anime che si trovano e si confrontano in ogni essere umano. In un certo senso è un richiamo alla dicotomia di cui parla Platone nel Fedro e nella Repubblica, e alla metafora del cavallo bianco che sempre si contrappone al cavallo nero.

6. Sarebbe d’accordo nel definire Enrichetta un personaggio statico nella sua leggerezza disincantata e la disinvoltura di sempre e invece Lucrezia che incontrò la faccia nera della solitudine, un personaggio di formazione?

Concordo. Come ho detto Lucrezia, con l’esclusione che le nasce da dentro, dalla drammaticità della propria dimensione interiore, da un’insaziabile sete d’amore che mai nulla e nessuno riusciranno ad appagare, è uno dei personaggi che ha una notevole evoluzione nel corso della storia. Invece Enrichetta è, per certi versi, un personaggio stabile, anche se, senza volere svelare nulla al lettore, pure lei a un certo punto è costretta a scontrarsi con la realtà che non sempre è bella e semplice. Anche lei deve fare i conti con l’ineluttabilità del fato che come un demone si impossessa della mente e del cuore e travolge tutto. Quel fato che incombe sin dall’inizio su tutta la storia e sulle vicende di ogni personaggio che da quella prospettiva diventano insignificanti.

7. Quale equilibrio regola il sistema dei suoi personaggi, quelli maschili e quelli femminili, i vecchi e i giovani, i benestanti, la povera gente, i legulei e gli ecclesiastici, vorrebbe esporci il suo punto di vista?

Ho cercato di parlare di una varia umanità, con tante sfaccettature, dipendenti non tanto dalle differenze economiche e sociali, ma dalla molteplicità e peculiarità delle vite di ognuno, anche se a ben vedere, come ho detto, in tutto il romanzo c’è un unico rumore di fondo, una sorta di basso continuo: quasi tutte le vite sono votate alla distruzione senza uno spiraglio di salvezza. Per me i personaggi più importanti sono quelli femminili: figure centrali e dominanti. E’ stata una bella sfida quella di tentare di entrare nell’eterno femminino. Non so se sono riuscito a descrivere bene il mondo delle donne senza farmi fuorviare dal punto di vista maschile. Il giudizio lo lascio alle lettrici, e sono curioso di sentirle. Il rapporto tra vecchi e giovani è un altro dei fili conduttori del romanzo, come lo è nella vita. Per gli ecclesiastici, personaggi di contorno, ho cercato di riandare alla situazione del Seicento, epoca nella quale la scelta della carriera ecclesiastica era spesso frutto non di intima vocazione ma di decisioni obbligate o di convenienza. Ho cercato di parlare della religiosità recondita, della religiosità naturale presente in ogni essere umano, che prescinde dalle varie fedi. L’episodio dello sciamano ne è un esempio. Non potevo, poi, non trovare il sistema per fare entrare nella storia una parentesi giudiziaria. Mi sono divertito a imbastire un processo con le regole del Seicento e l’uso del latino, normale all’epoca. E non potevo non fare emergere quella che è una mia intima convinzione, non originale peraltro, che la verità processuale è diversa e spesso lontana dalla “verità” con la V maiuscola, e che la giustizia non è cosa per la povera gente.  

8. Alla precedente domanda, lego quest’altra: una caratteristica del suo libro è costituita dalla costante presenza del magico, del superstizioso in cui a tratti scivola anche la religione, la presenza costante della shame culture, che Enrichetta e Lucrezia sfidano più di una volta, altri la subiscono. Qual è il suo pensiero a proposito. Lo chiedo perché ho avuto l’impressione che in alcuni momenti lei abbia subito il fascino di certi personaggi come quello del mendicante filosofo e dello sciamano, in altri affiora invece una palese nota di benevola ironia.

Non vi è dubbio che nel romanzo vi è una critica non tanto velata ai modelli di comportamento, al rispetto delle regole che caratterizzano ogni società. In questo senso il romanzo, pur ambientato nel Seicento, è attuale perché contesta stereotipi che informano anche la nostra vita. La presenza del magico, inteso come attaccamento alla superstizione, è uno dei modi di contrastare tali regole, come lo sono il comportamento di Enrichetta e Lucrezia durante la festa patronale, gli aforismi e le sentenze del mendicante filosofo e l’episodio dello sciamano. Non lo faccio mai in modo aspro, ma spesso con ironia, forse frutto degli studi classici, del castigat ridendo mores di latina memoria.

9. Un solo accenno alla prosa anche se rappresenta una delle componenti più significative del libro, e proprio per questa ragione, se ne è già diffusamente parlato. Personalmente vi ho individuato un andamento rapsodico che ben si addice al carattere epico della narrazione. Alla luce di tutto questo potremmo definire la sua scrittura una originale forma di prosa-lirica e se sì, tra le sue numerose letture ha subito anche da questo punto di vista l’influenza di qualche scrittore? (Vincenzo Consolo ad esempio)

Il mio non è un romanzo storico, al di là di un’impressione superficiale; se fosse stato un romanzo storico la prosa sarebbe stata necessariamente diversa. Invece una storia fantastica, irreale e favolosa come quella che ho raccontato necessitava di una prosa immaginifica, visionaria, poetica. Conosco bene Vincenzo Consolo e ho letto e amato “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e “Nottetempo casa per casa”. Ma penso mi abbiano influenzato di più innanzitutto le raccolte poetiche di tutte le epoche e soprattutto gli ermetici, che mi hanno folgorato alla soglia dei diciotto anni, per merito dei professori Gaetano (Tanino) Caponetto e Leonardo Odierna e anche, come ho già detto, molti romanzieri e, tra i tanti, ho dimenticato Salman Rushdie.

10. A partire dal capitolo 63 il libro passa dal lentoform al prestoform. Niente di più efficace per descrivere l’epilogo del romanzo, del quale non voglio dire altro per non svelare nulla a beneficio dei lettori. A mio avviso è uno dei momenti più belli del libro, quello in cui affiora anche una delle caratteristiche più pregevoli della nostra gente, la capacità di resistere.

All’evento che chiude il romanzo Jacopo Guzzardi oppone però un’arma ancora più efficace, quella della memoria. Accompagna ed esplicita ulteriormente questo suo gesto l’endecasillabo che appare nelle ultime righe del romanzo: “le parole che si aprono nel vento”. Vorrebbe spiegare più diffusamente anche a noi il suo significato che è poi il messaggio finale del romanzo?

Ho avuto la presunzione di raccontare una storia che costituisce un esempio di quei corsi e ricorsi che l’uomo vuole dimenticare, perché così crede di potere eternizzare la propria epoca felice. Ma l’eterna ricerca di un impossibile ideale finisce sempre per fallire di fronte all’ineluttabile che alla fine si presenta implacabile. Solo la memoria, che a poco a poco nel passare del tempo nei racconti diventa poetica (ecco il perché dell’endecasillabo) riesce a preservare e conservare quel mondo… Ma non voglio dire altro, finirei per svelare troppo e priverei i lettori del piacere di leggere: spero sia un piacere e non una noiosa fatica.

Ringraziamo Nino Tribulato per averci concesso il suo tempo e porgiamo i più calorosi auguri di futuri successi editoriali.

La “prof” Maria Lucia Martinez