L’uranio di Mussolini

Estate 1934, teatro dell’azione l’entroterra ragusano, territorio di competenza del commissario Vincenzo Ibla, reduce della prima guerra mondiale da cui è tornato con una ferita alla coscia che lo costringe a servirsi di un bastone, ma anche con piaghe più profonde nell’animo:

«Ancora incubi? Ma perché? Chi successe?» […] Rosetta lo raggiunse e gli prese le mani. «Fai ancora quei brutti pensieri? Ormai la guerra è finita da un pezzo, e tu mi sembrava che avessi smesso.» Vincenzo sospirò. «Il morto che abbiamo trovato ieri…» provò a spiegare «mi ha riportato a quei giorni.»

Gli viene affiancato per volere del Regime, Franco Durante, componente del SIM, Servizio Informazioni Militare. Il giovane arriva da Milano e si mostra subito un osso duro per Ibla che aveva pensato “che non ci sarebbe voluto molto per liquidarlo […] confinandolo in un angolo perché non lo intralciasse troppo nelle indagini”.

Porta sempre con sé una Contax che adopera per imprimere sulla pellicola i tratti facciali delle persone da classificare e suddividere, come afferma, in base al loro tasso potenziale di criminalità ma anche per altro.

“Con un gesto quasi istintivo prese la Contax che teneva al collo, la tirò fuori dalla custodia e cominciò a scattare fotografie. «Ma come?» fece Ibla. «Non aveva detto che era interessato solo ai volti delle persone?». Franco inquadrò il punto in cui il terreno scivolava nel vuoto, premette l’otturatore della Contax, poi abbassò la macchina fotografica. «È un modo come un altro per documentare tutto».

Del tutto diversi e apparentemente incompatibili per provenienza, cultura, mentalità, Ibla e Durante sono però accomunati da una cosa: trovare l’assassino del loro amico, Vittorio Borgia, in servizio in Sicilia, ucciso secondo il regime per ostacolare la fase preliminare dell’Operazione Ausonia legata alla futura campagna d’Africa. La realizzazione, vale a dire, di  una base aerea in Sicilia da cui far partire gli aerei  destinati a trasbordare l’uranio estratto dalle miniere del Ciad, indispensabile per “costruire un’arma rivoluzionaria, la più potente che sia mai stata creata” promessa al duce dallo scienziato Enrico Fermi.  

In realtà l’arma con cui è stato ucciso Borgia, un liccasapuni, e altre circostanze spingono ad estendere l’indagine alla criminalità locale e persino alla mafia, per cui i due protagonisti alla fine si trovano in mano una molteplicità di prove indiziarie. Sarà necessario perciò un intervento impensabile quanto inaspettato a far sì che giustizia sia fatta.

Scritto a quattro mani da Franco Forte e Vincenzo Vizzini, L’uranio di Mussolini, presenta tutte le caratteristiche del giallo d’autore: un plot sofisticato e intrigante, una coralità di personaggi comprimari di prim’ordine.

Rosetta. per esempio, la sorella di Ibla, protagonista di una delicata storia d’amore, di quelle che una volta non erano infrequenti nella nostra terra, legata alle tradizioni e al rispetto di determinati valori:

“Rosetta abbassò gli occhi sulla banchina, e lui comprese che era arrivato il momento di aprirsi. «Mi consentirai di scrivere delle lettere a tua sorella?» chiese a Vincenzo, rivolgendosi a lui come avrebbe fatto con il padre di Rosetta, se fosse stato presente. «E, quando possibile, di venire a trovarla? Perché non posso nascondere che ho intenzioni serie nei suoi confronti.»”

Un personaggio perfettamente in linea con i tempi ma tratteggiata con qualche guizzo di disarmante intraprendenza femminile che lo rende simpatico e intrigante:

“Prima che potesse continuare, lei lo sorprese come era solita fare: si alzò sulle punte dei piedi, gli gettò le braccia al collo e appoggiò le labbra sulle sue, concedendogli un bacio che aveva tutta la passione e l’energia di quella magnifica terra. «Alla faccia della donna morigerata del Sud!» rise Franco quando lei si staccò sentendo però subito il desiderio di stringerla ancora e di farsi inebriare dal suo sapore e dal profumo dei suoi capelli. «Meglio non esagerare» rise lei, «altrimenti Vincenzo ci arresta!»”

A ciò si aggiunge una ricerca antropologica accuratissima senza mai essere ostentata. Un’indagine, per usare un termine consono al contesto, che abbraccia svariati campi senza tralasciare (e come sarebbe possibile in Sicilia?) quello enogastronomico, presentato talvolta persino con la dovuta attenzione per il cerimoniale ad esso legato:

«Assaggia!» lo aveva sollecitato Ibla […] Franco aveva scrutato con sospetto il piatto. «Che cos’è?» aveva chiesto. Ibla si era limitato a far svolazzare la forchetta in aria. «Una cosina leggera. Pasta lievitata fatta friggere in padella, con un po’ d’olio, sale, origano, salame, provola e… cose segrete di Rosetta.» […] Prima di assaggiare, Franco aveva atteso che Rosetta ricomparisse, questa volta con un piatto ricolmo di quella che aveva presentato come la sua caponata, realizzata secondo una ricetta che le aveva insegnato la nonna.”

E si potrebbe continuare ancora a lungo a evidenziare i svariati i punti di forza presenti nel romanzo ma è giusto lasciare che sia il lettore a scoprirli. Vorrei chiudere però con un’ultima cosa che una siciliana di razza quale mi vanto di essere non poteva non avere individuato e di cui ha goduto pagina dopo pagina. Mi riferisco alla filosofia di vita che contraddistingue la nostra gente, affidata nel romanzo all’uso accorto del dialetto e alla gestualità, come afferma Ibla, “divertito all’idea di trasmettere un po’ di saggezza sicula a quel damerino del Nord”:

“«Da queste parti o parlate in un dialetto incomprensibile o comunicate a gesti» grugnì il milanese. «Difficile starvi dietro.» «Meglio non usare troppe parole» sorrise lui. «La lingua è come una ballerina: muove i fianchi e ti fa credere tante belle cose, ma spesso è solo una pantomima. Teatro.» Vide che, anziché rasserenarsi, il cipiglio di Durante si faceva ancora più marcato. «Quando stringi la mano a un uomo e lo guardi negli occhi» […] «allora capisci se ti dice la verità o se ti sta pigghiannu pi fissa.»”

Maria Lucia Martinez