La contrada dei tagliatori di pietra

Enego è un paese delle Prealpi vicentine, incastonato nel pianoro noto come Altopiano dei Sette Comuni. Ci troviamo agli inizi del Novecento, a Stoner, la contrada che porta il nome dei Tagliatori di Pietra. Tra fitti boschi e una natura tanto bella quanto incontaminata, si svolge il racconto della famiglia di Teresa e Domenico Frison, che dovrà affrontare anche le ingiuste peripezie della Prima Guerra Mondiale.

Nell’arco periodale che copre 17 anni (dal 1901 fino al termine della prima guerra mondiale), La contrada dei Tagliatori di Pietra ci cattura, dalla prima all’ultima pagina, senza effetti speciali o illusionismi sofisticati: con la semplice forza della sua storia, dei suoi personaggi, delle sue ambientazioni.

Flavia Guzzo compone e orchestra una sinfonia dove anche i personaggi minori hanno uno spessore profondo, una storia di donne con le palle quadre, di uomini che si fanno un mazzo così, di paesaggi dalla bellezza commovente, di sequenze di guerra da accapponare la pelle. In questa partitura c’è tutto, l’adagio, il presto, l’andante, il fortissimo, c’è il registro comico, il tragico, l’elegiaco; possiamo vedere e toccare i riccioli biondi di Teresa, sentire il profumo dei fiori e degli abeti, il tanfo dello sterco di vacca, dello stallatico, delle budella che saltano fuori dalle pance dei soldati dilaniati da una granata. C’è il riso argentino dei bambini e dei loro scherzi, c’è il dramma degli sfollati, c’è un flagello che assomiglia tanto a quello che viviamo in questi nostri difficili tempi, ma senza le terapie intensive. C’è l’eroina, c’è la stronza, c’è il verme e c’è il samaritano. C’è la vita.

Questo romanzo corale è l’epopea di un mondo che non c’è più, di un senso della comunità ormai smarrito, di una religiosità autentica dimenticata e svuotata dal bigottismo. Il racconto di una civiltà, prima della sua omologazione a tappe forzate descritta, ad esempio, in certe opere di Sgorlon. C’è la pasta tenace dei cimbro-veneti, quelli che furono anche di Longarone, Erto e Casso, quelli che, anche dopo immani tragedie, si rimboccano le maniche e ripartono. E in queste pagine si cita spesso Casso, ma non è il paese.

Gustosissimi i dialoghi (da antologia, uno per tutti, il sanguigno scambio di battute tra Teresa e Ottavio), splendidi i personaggi che sono vividi, belli, veri e te li immagini con la parlata di Marco Paolini. Con una cura dei particolari e del narrato delle tradizioni che ho rintracciato anche in certe opere di Ferdinando Camon.

Un’opera matura, esteticamente pregevole, da leggere e rileggere per comprendere dove affondano le nostre radici.

La frase che io avrei voluto scrivere è: “La vita non era cosa che si potesse scegliere, semmai un dono da accettare.”

Soltanto un appunto: i refusi. Si può e si deve fare qualcosa per eliminarli, perché è un libro che merita un editing all’altezza dei suoi contenuti.

Christian Floris